Provate ad immaginare una tesi di dottorato intitolata La persecuzione dei cattolici: una invenzione razzista. O un'altra tesi di dottorato in cui, dopo aver chiarito che in USA, nel 2009, il numero di atti di islamofobia e' stato ridicolmente basso (il che e' vero, eh), il candidato sostenga che tutta la questione dell'islamofobia sia una specie di complotto.
Credo che i due candidati di cui sopra avrebbero poche possibilita' di discutere le loro tesi.
Invece, pensa un po' che fortuna, questa signorina ha potuto addottorarsi discettando per un centinaio di pagine sulla "Victimhood of the Powerfull", sul razzismo ebraico e sul complotto sionista che obbliga i bambini neri a imparare a menadito la leggenda della Shoa. O giu' di li'.
Si', certo, la signorina e' ebrea. Come Rosa Luxemburg, che due anni prima di morire, nel 1917, scriveva ad una amica di non avere nel suo cuore alcuno spazio per le sofferenze del popolo ebraico. Le importavano di piu' le sofferenze di altri.
A me queste persone fanno davvero pena. Il loro ebraismo consiste in un vago impegno per la giustizia sociale, che poi si riduce a una specie di era messianica in cui cadranno le distinzioni tra ebrei e non ebrei. Come voleva Paolo. E vabbe', se essere ebreo ti pesa, vien da dire, fatti tuoi. Nessuno ti obbliga, grazie a Dio, a stare da questa parte di quella che tu credi sia una barriera di separazione dal resto del mondo.
Ma nulla, questi continuano a sognare un mondo in cui tutti gli ebrei potranno (o saranno costretti a) gettare via questa imbarazzante appartenenza. Giusto per non sbagliarsi, loro preferiscono sbarazzarsene prima. Sicche' la loro militanza per la giustizia sociale si riduce a una crociata contro "organizzazioni ebraiche" ricche e potenti, con i Savi di Sion al comando.
La dottoranda dedica il primo capitolo della sua tesi al racconto del proprio percorso ideologico. Ovvero: della contemplazione del proprio ombelico. Probabilmente fa parte della atmosfera culturale di questi anni, dominati (anche) dalla cultura del piagnisteo: casi patologici di gente dalla bassissima stima di se' che, per riscattarsi, si sentono obbligati all'impegno in campagne contro i mulini a vento; e piu' la battaglia e' autolesionista, piu' si sentono eroi. Problemi psicologici loro. Eppero', che le Universita' diventino lo spazio per esibirle, queste nevrosi, mi fa comunque impressione.
Tanto per cambiare, e' un genere di deliri che, come ho detto sopra, prende di mira gli ebrei e non altri gruppi sociali. Ma pensa che fortuna.
2 commenti:
"Jenny Peto"
nomen omen
Poi in dialetto veneto petare vuol dire attaccare: no sta vegnerme visin che te peto el rafredore. I me gà petà i peoci. In altre parole: roba contagiosa. (Pétoea invece è uno stronzo piccolo, una fecina se vogliamo dirla più elegante: so meza stitica, gò fato altro che na petoeta da mezo gramo)
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