C’è una storia, una leggenda, che è presente in tutte le culture. Racconta il viaggio di un eroe alla ricerca di un tesoro. Ve ne sono molte versioni, ma il tema è fondamentalmente lo stesso. L’eroe è un personaggio comune, ordinario, che riceve una chiamata. Vede un roveto ardente, sente una voce che gli dice: lekh, lekha, vai, mettiti in viaggio. Lungo il viaggio l’eroe incontra amici, supera ostacoli, sopravvive a battaglie. E il viaggio termina sulla soglia di un mondo sconosciuto, di una caverna misteriosa, di una terra promessa. L’eroe supera la soglia grazie alla sua abilità, o alla sua fortuna, ed entra in questa terra nuova, in cui lo attende un tesoro.
Ma in questa terra, che ha paesaggi di lussureggiante bellezza e regioni di tenebra perenne, vigono nuove regole, amici e nemici si confondono. L’eroe raggiunge -o conquista- il tesoro e poi inizia il viaggio di ritorno, verso il mondo ordinario, comune. E prima di rientrare alla realtà familiare, sulla soglia, l’eroe ha di solito un momento di ripensamento: perché abbandonare quel nuovo mondo di cui sta iniziando a conoscere le regole, perché tornare alla triviale quotidianità? Ma qualcosa lo spinge definitivamente fuori: lo scopo del viaggio era la ricerca del tesoro che, una volta scoperto e conquistato, deve essere condiviso con l’umanità intera.
Troviamo questo tema in ballate medioevali, in leggende indiane, anche in diversi testi della nostra tradizione. É la storia del viaggio intrapreso da ognuno di noi, per scoprire chi siamo, e che significato ha la nostra vita.
Kippur è parte di questo viaggio che compiamo insieme agli altri ebrei, alle altre comunità -o congregazioni- ebraiche nel mondo. È il giorno in cui il mondo fa un passo indietro per permetterci di concentrarci sul nostro viaggio ebraico, personale e collettivo al tempo stesso.
Il viaggio inizia, anche per noi, con una chiamata; la mail con gli orari delle funzioni. Le telefonate di amici o parenti che ci chiedono: allora quest’anno dove andiamo per Kippur? O lo shofar a Rosh ha Shana, il cui suono rauco ci ricorda il nostro comune antenato Abramo, e la sua chiamata: lekh lekha, vai a te stesso. C’è poi la solenne sera di Kippur, il Kol Nidré, in cui siamo di fronte a una corte celeste; prestiamo giuramento di dire solo la verità, nient’altro che la verità.
Ci confrontiamo con noi stessi, senza la paura del giudizio altrui. Ci viene chiesto di non prestare attenzione agli istinti quotidiani: bere, mangiare ... Il mondo per questo giorno, tace.
Il risveglio al mattino, vi dirò, senza giornali e senza caffé, per me è particolarmente duro. È il momento in cui le esigenze quotidiane si fanno sentire.
E poi ci uniamo al popolo di Israele, agli altri ebrei, nostri compagni in questo viaggio collettivo ed individuale. Ci riuniamo per fare Kippur. A chi ci chiede: ma cosa vai a fare? Rispondiamo: A pregare. Ma la preghiera ebraica è una faccenda curiosa. Preghiera in ebraico si dice tefillah - che è una forma del verbo riflessivo lehitpallel, giudicare. Pregare significa anche giudicare sé stessi.
Avraham Heschel spiega che la tefillah ha significato solo se è sovversiva, se è la costruzione di un tempio interiore, con momenti di devozione, tempi di meditazione, al posto delle piramidi e dei monumenti edificati da schiavi.
È davvero uno strano tesoro, questo nostro che abbiamo trovato al Sinai, in uscita dal regno delle piramidi e dalla condizione di schiavitù, durante quel viaggio compiuto secoli fa dai nostri antenati. Dio, ci è stato detto, non ha forma, né aspetto. Non è stato mai visto, quindi noi non possiamo crearne immagini. Possiamo però sentire la presenza di Dio nella nostra vita, che ci spinge avanti, verso il mondo.
Il nostro Dio è il Dio della vita: ciò che viene raffigurato, è fermo, è morto. Il nostro Dio sta davanti a noi e ci chiede di seguirne le vie. Ce lo chiede anche a Kippur: il pentimento, la teshuvah, il perdono, non sono comandati, o nemmeno ordinati. Dio ce li indica e mostra con il Suo esempio, nella Sua relazione con ciascuno di noi. Dio per primo perdona ciascuno di noi. E ci invita a seguire la via della nobiltà d’animo, lontana da meschinità ed egoismi e guidata dalla “regola aurea”: amerai il prossimo tuo come té stesso, vale a dire amerai il prossimo tuo perché è come te.
Ma questa regola aurea, che il prossimo è come noi, non è poi una grande scoperta a Kippur. Fa già parte delle nostre vite, ma capita che ne facciamo, per dire, un impiego errato. Diventa uno strumento per affermarci. Per esempio, per accusare gli altri di difetti che sentiamo nostri. Noi tutti siamo consapevoli delle parti sgradevoli o persino malvage interne a noi. Vorremmo sbarazzarcene: e più ci disgustano, più vorremmo cacciarle al di fuori di noi. E così la realtà attorno a noi assume i caratteri di quel che detestiamo, e questo spettacolo accresce la nostra amareza e ci incattivisce vieppiù. Ciò che non accettiamo dentro di noi diventa qualcosa di insopportabile negli altri. E’ l’evasore fiscale, che ruba alla collettività, quello che chiede pene più dure per i ladri, quando non passa a punirli direttamente. E lo chiama fare giustizia.
Sono meccanismi psicologici ben noti. A Kippur i nostri antenati praticavano il rito del capro espiatorio: caricare delle proprie mancanze qualcosa di esterno e spedirlo lontano, cacciarlo nel deserto. Sono le parti oscure che incontriamo in questo viaggio collettivo: le regioni dalla tenebra perenne, in cui ci sentiamo persi, tanto appare confusa la distinzione tra giustizia e torto.
Siamo come il princìpe di cui parla il Midrash, che si è allontanato furente -o annoiato- dalla casa di suo padre; incontra degli amici che gli chiedono di tornare, ma lui dice di non avere forza, di essere troppo debole. E suo padre, il re, gli manda a dire: fai almeno una parte della strada di ritorno, inizia a compiere il percorso. Io farò il resto, ti verrò incontro e ci incontereremo a metà strada. Torna verso di me e io tornerò verso di te.
Rabbi Kook spiega che la teshuvah non è una regressione. È un ritorno. Quando una società è percorsa dall’idolatria, dalla sacralizzazione dei rapporti di potere, tornare alla regola aurea dell’uomo creato ad immagine di Dio e dell’ama il tuo prossimo perché è come te, attuare teshuvah, dice rabbi Kook, ha un carattere rivoluzionario. Questa è l’ispirazione del Sinai, questo il tesoro spirituale del popolo ebraico, che noi ebrei abbiamo il compito di condividere con l’umanità intera: il superamento delle tendenze oscure, idolatriche e oppressive che fanno parte di ogni gruppo umano, di ogni essere umano, di ciascuno di noi. A questo ci spinge la regola aurea, il tesoro scoperto dai nostri antenati secoli orsono in quel viaggio che il prototipo del viaggio che compiamo insieme ogni anno a Kippur e dei molti altri viaggi di cui parlano i testi della nostra tradizione.
Ve ne racconterò uno, quello di Elazar ben Durdaya, che amava frequentare prostitute. È una storia che si trova nel Talmud, nel trattato Avodah Zarah. Un giorno Elazar sentì parlare di una cortigiana bellissima e a quanto pare bravissima, si informò sul prezzo, raccolse la somma e si mise in viaggio per trovare la professionista. Il Talmud dice che Elazar ben Durdaya attraversò i proverbiali sette mari, monti e fiumi. Al termine dell’incontro la prosituta gli disse: “Verrà ricordato (da Dio) solo questo tuo viaggio e non sarai mai ammesso nell’olam habaa, nel mondo futuro”.
E Elazar si rese conto di aver commesso una grave aveirah, aver ridotto una persona a merce. E un’altra aveirah, ché quel denaro poteva essere speso per scopi più degni. E un’altra ancora, perché quel viaggio poteva avere uno scopo più degno. E così via.
Così Elazar ben Darduya, disperato e afflitto, sedette al suolo. Il Talmud dice che le montagne si impietosirono per lui, e lui chiese a loro di pregare in suo favore, ma le montagne gli risposero: Non possiamo pregare per te, stiamo pregando per rimanere salde. Eliezer si rivolse allora ai cieli, e chiede a loro di pregare per lui. Ma i cieli gli risposero: Abbiamo molto da fare, dobbiamo pregare perché i pianeti possano continuare il loro modo ordinato e l’universo mantenersi più o meno stabile. Ed è allora, dice il Talmud, che Elazar ben Durdaya comprende che il suo perdono, la sua teshuvah, dipendeva solo da lui stesso. A questo punto Elazar ben Darduya pianse e si disperò fino a ché la sua anima salì verso i cieli e venne accolto da una voce divina che diceva: Nell’olam habaa vi è posto per Rabbi Elazar ben Darduya.
Commenta il Talmud che vi sono quelli che entrano nello olam habaa dopo una vita intera, e vi sono coloro, come Rabbi Elazar ben Darduya, che guadagnano lo olam habaa in una sola ora. Il nome di chi compie teshuvah non solo viene ricordato, ma anche onorato con il titolo di Rabbi, maestro, perché chi compie teshuvah è come un esploratore, un grande viaggiatore che ha molto da insegnare.
L’umanità, sappiamo, ha una straordinaria capacità di rinnovamento e di continua rinascita. Ciascuno di noi ha la possibilità di ricordare il tracciato delle darkhei shalom, le strade di pace, il viaggio che dal Sinai ci ha portato qui con un prezioso tesoro.
Si dice: Una aveirah va contro un comandamento, ma non può cancellare la Torah, di cui rimane la luce. Che la nostra teshuvah, il nostro viaggio, sia illuminato da questa luce.
Ma in questa terra, che ha paesaggi di lussureggiante bellezza e regioni di tenebra perenne, vigono nuove regole, amici e nemici si confondono. L’eroe raggiunge -o conquista- il tesoro e poi inizia il viaggio di ritorno, verso il mondo ordinario, comune. E prima di rientrare alla realtà familiare, sulla soglia, l’eroe ha di solito un momento di ripensamento: perché abbandonare quel nuovo mondo di cui sta iniziando a conoscere le regole, perché tornare alla triviale quotidianità? Ma qualcosa lo spinge definitivamente fuori: lo scopo del viaggio era la ricerca del tesoro che, una volta scoperto e conquistato, deve essere condiviso con l’umanità intera.
Troviamo questo tema in ballate medioevali, in leggende indiane, anche in diversi testi della nostra tradizione. É la storia del viaggio intrapreso da ognuno di noi, per scoprire chi siamo, e che significato ha la nostra vita.
Kippur è parte di questo viaggio che compiamo insieme agli altri ebrei, alle altre comunità -o congregazioni- ebraiche nel mondo. È il giorno in cui il mondo fa un passo indietro per permetterci di concentrarci sul nostro viaggio ebraico, personale e collettivo al tempo stesso.
Il viaggio inizia, anche per noi, con una chiamata; la mail con gli orari delle funzioni. Le telefonate di amici o parenti che ci chiedono: allora quest’anno dove andiamo per Kippur? O lo shofar a Rosh ha Shana, il cui suono rauco ci ricorda il nostro comune antenato Abramo, e la sua chiamata: lekh lekha, vai a te stesso. C’è poi la solenne sera di Kippur, il Kol Nidré, in cui siamo di fronte a una corte celeste; prestiamo giuramento di dire solo la verità, nient’altro che la verità.
Ci confrontiamo con noi stessi, senza la paura del giudizio altrui. Ci viene chiesto di non prestare attenzione agli istinti quotidiani: bere, mangiare ... Il mondo per questo giorno, tace.
Il risveglio al mattino, vi dirò, senza giornali e senza caffé, per me è particolarmente duro. È il momento in cui le esigenze quotidiane si fanno sentire.
E poi ci uniamo al popolo di Israele, agli altri ebrei, nostri compagni in questo viaggio collettivo ed individuale. Ci riuniamo per fare Kippur. A chi ci chiede: ma cosa vai a fare? Rispondiamo: A pregare. Ma la preghiera ebraica è una faccenda curiosa. Preghiera in ebraico si dice tefillah - che è una forma del verbo riflessivo lehitpallel, giudicare. Pregare significa anche giudicare sé stessi.
Avraham Heschel spiega che la tefillah ha significato solo se è sovversiva, se è la costruzione di un tempio interiore, con momenti di devozione, tempi di meditazione, al posto delle piramidi e dei monumenti edificati da schiavi.
È davvero uno strano tesoro, questo nostro che abbiamo trovato al Sinai, in uscita dal regno delle piramidi e dalla condizione di schiavitù, durante quel viaggio compiuto secoli fa dai nostri antenati. Dio, ci è stato detto, non ha forma, né aspetto. Non è stato mai visto, quindi noi non possiamo crearne immagini. Possiamo però sentire la presenza di Dio nella nostra vita, che ci spinge avanti, verso il mondo.
Il nostro Dio è il Dio della vita: ciò che viene raffigurato, è fermo, è morto. Il nostro Dio sta davanti a noi e ci chiede di seguirne le vie. Ce lo chiede anche a Kippur: il pentimento, la teshuvah, il perdono, non sono comandati, o nemmeno ordinati. Dio ce li indica e mostra con il Suo esempio, nella Sua relazione con ciascuno di noi. Dio per primo perdona ciascuno di noi. E ci invita a seguire la via della nobiltà d’animo, lontana da meschinità ed egoismi e guidata dalla “regola aurea”: amerai il prossimo tuo come té stesso, vale a dire amerai il prossimo tuo perché è come te.
Ma questa regola aurea, che il prossimo è come noi, non è poi una grande scoperta a Kippur. Fa già parte delle nostre vite, ma capita che ne facciamo, per dire, un impiego errato. Diventa uno strumento per affermarci. Per esempio, per accusare gli altri di difetti che sentiamo nostri. Noi tutti siamo consapevoli delle parti sgradevoli o persino malvage interne a noi. Vorremmo sbarazzarcene: e più ci disgustano, più vorremmo cacciarle al di fuori di noi. E così la realtà attorno a noi assume i caratteri di quel che detestiamo, e questo spettacolo accresce la nostra amareza e ci incattivisce vieppiù. Ciò che non accettiamo dentro di noi diventa qualcosa di insopportabile negli altri. E’ l’evasore fiscale, che ruba alla collettività, quello che chiede pene più dure per i ladri, quando non passa a punirli direttamente. E lo chiama fare giustizia.
Sono meccanismi psicologici ben noti. A Kippur i nostri antenati praticavano il rito del capro espiatorio: caricare delle proprie mancanze qualcosa di esterno e spedirlo lontano, cacciarlo nel deserto. Sono le parti oscure che incontriamo in questo viaggio collettivo: le regioni dalla tenebra perenne, in cui ci sentiamo persi, tanto appare confusa la distinzione tra giustizia e torto.
Siamo come il princìpe di cui parla il Midrash, che si è allontanato furente -o annoiato- dalla casa di suo padre; incontra degli amici che gli chiedono di tornare, ma lui dice di non avere forza, di essere troppo debole. E suo padre, il re, gli manda a dire: fai almeno una parte della strada di ritorno, inizia a compiere il percorso. Io farò il resto, ti verrò incontro e ci incontereremo a metà strada. Torna verso di me e io tornerò verso di te.
Rabbi Kook spiega che la teshuvah non è una regressione. È un ritorno. Quando una società è percorsa dall’idolatria, dalla sacralizzazione dei rapporti di potere, tornare alla regola aurea dell’uomo creato ad immagine di Dio e dell’ama il tuo prossimo perché è come te, attuare teshuvah, dice rabbi Kook, ha un carattere rivoluzionario. Questa è l’ispirazione del Sinai, questo il tesoro spirituale del popolo ebraico, che noi ebrei abbiamo il compito di condividere con l’umanità intera: il superamento delle tendenze oscure, idolatriche e oppressive che fanno parte di ogni gruppo umano, di ogni essere umano, di ciascuno di noi. A questo ci spinge la regola aurea, il tesoro scoperto dai nostri antenati secoli orsono in quel viaggio che il prototipo del viaggio che compiamo insieme ogni anno a Kippur e dei molti altri viaggi di cui parlano i testi della nostra tradizione.
Ve ne racconterò uno, quello di Elazar ben Durdaya, che amava frequentare prostitute. È una storia che si trova nel Talmud, nel trattato Avodah Zarah. Un giorno Elazar sentì parlare di una cortigiana bellissima e a quanto pare bravissima, si informò sul prezzo, raccolse la somma e si mise in viaggio per trovare la professionista. Il Talmud dice che Elazar ben Durdaya attraversò i proverbiali sette mari, monti e fiumi. Al termine dell’incontro la prosituta gli disse: “Verrà ricordato (da Dio) solo questo tuo viaggio e non sarai mai ammesso nell’olam habaa, nel mondo futuro”.
E Elazar si rese conto di aver commesso una grave aveirah, aver ridotto una persona a merce. E un’altra aveirah, ché quel denaro poteva essere speso per scopi più degni. E un’altra ancora, perché quel viaggio poteva avere uno scopo più degno. E così via.
Così Elazar ben Darduya, disperato e afflitto, sedette al suolo. Il Talmud dice che le montagne si impietosirono per lui, e lui chiese a loro di pregare in suo favore, ma le montagne gli risposero: Non possiamo pregare per te, stiamo pregando per rimanere salde. Eliezer si rivolse allora ai cieli, e chiede a loro di pregare per lui. Ma i cieli gli risposero: Abbiamo molto da fare, dobbiamo pregare perché i pianeti possano continuare il loro modo ordinato e l’universo mantenersi più o meno stabile. Ed è allora, dice il Talmud, che Elazar ben Durdaya comprende che il suo perdono, la sua teshuvah, dipendeva solo da lui stesso. A questo punto Elazar ben Darduya pianse e si disperò fino a ché la sua anima salì verso i cieli e venne accolto da una voce divina che diceva: Nell’olam habaa vi è posto per Rabbi Elazar ben Darduya.
Commenta il Talmud che vi sono quelli che entrano nello olam habaa dopo una vita intera, e vi sono coloro, come Rabbi Elazar ben Darduya, che guadagnano lo olam habaa in una sola ora. Il nome di chi compie teshuvah non solo viene ricordato, ma anche onorato con il titolo di Rabbi, maestro, perché chi compie teshuvah è come un esploratore, un grande viaggiatore che ha molto da insegnare.
L’umanità, sappiamo, ha una straordinaria capacità di rinnovamento e di continua rinascita. Ciascuno di noi ha la possibilità di ricordare il tracciato delle darkhei shalom, le strade di pace, il viaggio che dal Sinai ci ha portato qui con un prezioso tesoro.
Si dice: Una aveirah va contro un comandamento, ma non può cancellare la Torah, di cui rimane la luce. Che la nostra teshuvah, il nostro viaggio, sia illuminato da questa luce.
Congregazione Shir Hadash, Firenze, Kippur 5769
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