sabato 11 ottobre 2008

Kol Nidré 5769

Israele, dove ho passato l’ultimo anno, è uno strano Paese.
All’ingresso dell’albergo vi accoglie la Kabbalah, la reception. Che è anche il nome della tradizione mistica ebraica, e quindi trovate la scritta Kabbalah anche a designare scaffali nelle biblioteche o settori di librerie.
Kvutzat Yavne era il gruppo di rabbini che seppe trattare con le autorità occupanti e assicurare la continuità della nostra tradizione spirituale. Ma in Israele è anche una marca di olio di oliva.
Parashat ha shavua, la parasha della settimana è la porzione di Bibbia che viene letta in sinagoga al sabato ma ultimamente è anche la nuova notizia, ce ne è una ogni settimana, sul coinvolgimento del Presidente del Consiglio in qualche faccenda losca – e il relativo processo. Là infatti c’è questa cosa strana: un Presidente del Consiglio può venire processato.
E heshbon bevakashà vuol dire: il conto, prego! Lo dici prima di alzarsi ed uscire dal caffé o dal ristorante. Ma heshbon ha nefesh, rendiconto dell’anima, è anche il nome del processo cui ci invita la nostra tradizione nei giorni che precedono Kippur.
Siamo invitati a scrutare noi stessi in profondità, a passare al vaglio il nostro rapporto con Dio.
Alcuni Maestri invitano ad immaginare Dio come una specie di direttore di banca che in questo periodo sta controllando i movimenti del nostro conto. Le entrate – le mitzwot; le uscite – le trasgressioni. E noi siamo i clienti che hanno chiesto il saldo.
Altri preferiscono immagini più giuridiche – c’è chi si immagina Dio come un giudice, o un commissario di polizia, che in questo momento sta pensando a noi. Esamina la nostra fedina penale, considera le testimonianze, ci chiede cosa abbiamo da dichiarare e noi fino a Kippur abbiamo tempo per parlarGli, per dichiararci dispiaciuti, per impegnarci a “filare diritto”, a non trasgredire più.
In ebraico la parola italiana peccato si traduce con aveirah, עבירה, che propriamente significa trasgressione, passare oltre, superare il confine tra giusto e sbagliato, e questa è una trasgressione della Torah.
Una aveirah – se volete: un peccato- che la nostra tradizione considera grave è il leshon haraa, espressione che tradotta letteralmente significa discorso malvagio e (vi ho detto che l’ebraico è una lingua strana) designa sia la calunnia, sia il pettegolezzo.
La nostra tradizione prende molto sul serio il leshon haraa. Lo spiega la storia di quella donna, che spendeva molto tempo ed energie nel leshon haraa.
Un anno, prima di Kippur deciso di compiere teshuvah, di pentirsi delle averot compiute. Si reca così dal rabbino del villaggio e dice: Rav, ho fatto il mio heshbon hanefesh e mi sono resa conto di aver veramente esagerato con il leshon haraa, ho spettegolato, ho diffuso maldicenze, pensavo fosse cosa da poco, chiacchiere, mi sono fatta prendere la mano e ho diffuso calunnie. Cosa posso fare per rimediare?
Il rabbino le disse: vai al mercato, nella piazza principale, e porta con te un cuscino. Una volta arrivata al mercato, nella piazza principale mi raccomando, squarcia il cuscino nel mezzo e fai uscire tutte le piume. Scuotilo ben bene, finché tutte le piume saranno uscite.
La donna fece come le aveva consigliato il rabbino e poi tornò a chiedergli: Ecco, Rav, ho portato il cuscino nella piazza del mercato, lo ho squarciato e ho disperso tutte le piume. Ora cosa devo fare? Il rabbino sospirò e le disse: ora vai a raccogliere tutte le piume.
Ogni volta che compiamo una aveirah, una trasgressione, ci sembra leggera come una piuma, ma non conosciamo mai le conseguenze, non sappiamo dove il vento la ha portata e recuperarla, rimediare, può essere una questione difficile. La piuma è sfuggita al nostro controllo, c’entra pur sempre qualcosa con noi, ed è magari diventata esempio per qualcun altro.
Quando la Torah parla di Kippur dice Voi sarete puri davanti all’Eterno (Lev 16,30) לפני יהוה תטהרו Kippur purifica solo dalle averot contro Dio: quelli che per i cohanim erano obblighi rituali, obblighi di purezza durante il culto: i doveri cerimoniali, la preghiera, la reverenza verso il Nome di Dio.
Ma non vengono sanate le aveirot commesse contro altri esseri umani. Agli altri uomini, alle altre donne, dobbiamo noi per primi chiedere perdono.
Per questa ragione la nostra tradizione stabilisce che i giorni fino a Kippur sono un tempo adeguato, in cui vige l’obbligo di ascoltare anche chi ci ha offeso in modo molto forte, di essere aperti a perdonare, a ricucire, a ricominciare. Vige per tutti.
Ma Kippur riguarda i peccati, le colpe, le imperfezioni, le occasioni perse nei confronti di Dio. Non possiamo certo chiedere che siano cancellati gli effetti dei nostri peccati, e naturalmente nemmeno chiediamo di venire puniti.
Non possiamo rincorrere le piume disperse dalla piazza del mercato. Anche se riuscissimo a reccoglierle tutte, quelle piume, sono ormai tanto sporche, contaminate, che nessuno le rimetterebbe dentro un cuscino. Nessuno dormirebbe su un cuscino siffatto.
Ytzak Meir di Ger, un maestro chassidico, spiega uno dei rischi del heshbon hanefesh. Che è quello di finire intrappolati nei propri pensieri, di fermarsi a considerare gli aspetti malsani della propria personalità, a enumerare le aveirot in un processo interminabile – giacché sappiamo che ogni aveirah deriva da un’altra proprio come ogni mitzwah porta un’altra mitzwah come ricompensa.
Dice il maestro chassidico che per rimediare allo yezter haraa, all’impulso al male, abbiamo a disposizione lo yetzer tov, l’impulso a costruire, l’impulso verso il bene. La Torah dice: סור מרע ועשה-טוב (Salmi 34:15), Allontanati completamente dallo yetzer haraa, non ti ci crogiolare, bilancia il tuo raa con il tov che sicuramente farai questo anno.
Kippur è una occasione di crescita, in cui possiamo uscire rafforzati.
Chiediamo l’aiuto di Dio, perché i nostri propositi più nobili siano più forti delle inevitabili tendenze verso il basso, degradanti verso le aveirot. Perché ciò che ci avvicina e ci eleva sia più forte di quel che ci tiene lontano e ci indebolisce.
Questo è il giorno che inizia questa sera. Dipende da noi renderlo nobile, rendere nobile anche la nostra anima.
C’è un bellissimo midrash che descrive tutto il popolo di Israele, tutti noi, che nelle prossime ore saremo impegnati in questo processo di heshbon ha nefesh. A scrutare profondamente quel che abbiamo combinato nell’anno passato e a interrogarci sulle conseguenze, cercando di rintracciare le piume disperse, le aveirot, le trasgressioni.
E mentre temiamo e tremiamo in attesa della sentenza da parte dell’Altissimo giudice, un angelo ci sussurra: non preoccuparti, il Giudice è tuo padre.
Proviamo nelle prossime ore ad incontrare questo nostro parente; sentiamo cosa ha da dirci.

Congregazione Shir Hadash, Firenze, Kol Nidré 5769

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