martedì 30 settembre 2008

sul legamento di Isacco

Devo confessare che ho sempre trovato piuttosto disturbante tutta la storia della Akedat Itzak, del legamento di Isacco (Gen 22). E sono sicuro di non essere il solo.
È una storia barbara: un padre riceve da Dio l’ordine di uccidere un figlio. Persino riassumendo tutta la faccenda in una sola riga, provo un sentimento di orrore, cerco immediatamente di volgere l’attenzione ad argomenti più rassicuranti.
Ogni volta che penso alla Akeidat Itzak ripeto a me stesso che non è vero, che un ordine così crudele non può venire dal mio Dio, che non possono esistere padri che accettano di uccidere i propri figli. E se riesco ad imprimere queste parole nella mia mente, a cancellare il pensiero di un Dio che comanda una cosa così assurda, uccidere un figlio, mi rassicuro.
Provo di nuovo un senso di fiducia nei miei simili. Ritorno alla realtà quotidiana, confortevole e rassicurante. Grazie a Dio io vivo in un mondo in cui i figli non corrono il rischio di venir uccisi dai padri.
Ma non è sempre andata così. Nella Germania medioevale la folla che assediava gli ebrei spinse più di una volta famiglie intere al suicidio; nelle mani dei crociati la morte sarebbe stata più crudele.
Successe anche in Spagna e in Portogallo, quando si cercava di evitare ai più giovani la lunga agonia nelle prigioni dell’Inquisizione. Genitori ebrei hanno affrettato la morte dei più piccoli, per evitare loro tormenti più atroci.
È successo anche pochi decenni fa. Abbiamo racconti dettagliati, i testimoni sono ancora tra noi. La Shoah non è avvolta nelle nebbia del mito, sono eventi davvero accaduti.
Non succede forse qualcosa di simile in Israele, a poche ore di volo da qui? È vero, nessuno in Israele uccide i propri figli, ma crescere un cittadino israeliano significa anche preparare il proprio figlio a vestire una divisa.
La divisa di un esercito che compie senz’altro bellissime azioni di Tikkun Olam, di giustizia sociale e di assistenza ai più deboli.
Sono in pochi a sapere che un militare israeliano può scegliere (e sono in tanti a sceglierlo) mesi aggiuntivi di servizio, in case di riposo, rifugi per donne maltrattate, nei centri di accoglienza per i nuovi immigrati dalla Russia o dall’Etiopia. Ma è pur sempre un esercito, una macchina da guerra e in guerra si uccide. E si muore anche, חש ושלום.
Rischiare la propria vita perchè si è ebrei in Israele non capita solo ai militari. Adesso è la condizione degli abitanti di Sderot, o delle città al confine settentrionale. In altri momenti è la condizione dei passanti che attraversano una strada, di pensionati che salgono su un autobus, di bambini che giocano in un parco di Gerusalemme.
E nella Diaspora, essere ebrei è una condizione di minoranza – e minoranza non è sinonimo di sicurezza. In democrazia si ha voce se si è parte di un segmento significativo della popolazione. Noi ebrei non siamo un gruppo numericamente significativo in Italia, e probabilmente in futuro lo saremo ancora di meno.
Crescere dei figli come ebrei significa farli entrare in una minoranza. Anche se non rischia la vita, ogni giovane ebreo, bambina o bambino, ragazzo o ragazza, si troverà a fronteggiare -nel migliore dei casi- ignoranza e sospetti.
Cosa sono quegli strani biscotti che mangia in un certo periodo dell’anno? Perché per lui è importante il sabato e non la domenica, come per tutti? Perché quel barbaro rito della circoncisione?
Ma possono capitare momenti peggiori, come sono capitati a non pochi di noi. Durante una conversazione sulla politica internazionale ecco che il discorso cade sul potere della lobby neocon, questa specie di Savi Anziani di Sion che controllano gli USA e quindi il mondo.
Una persona che crediamo amica ci spiega che gli ebrei si aiutano sempre l’un l’altro, come dimostra Tizio, che è sempre amico di Caio, che tutti sanno si chiama Levi. E noi vorremmo spiegare che si tratta di un mito, un mito che peraltro vorremmo fosse vero, ma sentiamo d’improvviso una profonda solitudine e le parole ci muoiono in gola.
Non sappiamo se parlare al nostro amico o delle leggende che gli abitano il cervello.
In un momento o nell’altro, senza che ne abbiamo controllo, quegli elementi mefitici che sono là fuori possono incontrarsi e creare una miscela pericolosa. Esponiamo i nostri figli a questa atmosfera, quando vengono con noi al Tempio o quando chiediamo che possano stare lontano da scuola per Rosh ha Shana?
Oh, sì. Crescendo i figli come ebrei li educhiamo a non fare parte di una maggioranza. Spieghiamo loro, di solito attorno alla tavola, durante feste di cui i loro amici non hanno (ancora) sentito parlare, che non sempre essere parte della folla significa sapere tutto. Spesso, anzi, significa essere nel torto. Ci sono, come si dice, più cose nel mondo.
Con questo strano capodanno, che inizia più o meno quando inizia la scuola, ma non tutti gli anni nello stesso giorno, educhiamo i nostri figli a sentirsi parte di una comunità più ampia di quella dei coetanei o degli abitanti di Milano. Il popolo ebraico che, qualunque cosa significhi popolo, segue questo calendario e non solo quello che noi chiamiamo calendario civile.
Essere ebrei vuol dire fare parte dell’umanità in senso generale, e fare parte anche di una minoranza particolare: non è facile, certo. Ma è anche un tonico straordinario per l’indipendenza di giudizio.
Educare un figlio ad essere ebreo è anche educarlo al pensiero critico ed indipendente, nella speranza che un giorno vada ad aumentare il numero dei premi Nobel ebrei, signore e signori che si occupano di cose straordinarie, per il bene di tutta l’umanità.
Ma educare un figlio ad essere ebreo significa anche educare al rispetto della vita umana, senza curarsi se questo non è un valore per la maggioranza.
Perché essere ebrei significa far parte di una tradizione che proclama che l’essere umano è creato ad immagine di Dio: che insegna che la dignità degli esseri umani, la vita umana è IL valore supremo. È a questo che educhiamo i nostri figli quando vogliamo che crescano ebrei.
Essere ebrei è anche in quel sentimento di orrore che ispira la lettura della Akeidat Itzak, una storia che io riesco a leggere e ad ascoltare solo perché so già come va a finire. Isacco non viene ucciso e poche pagine dopo ricomincia la narrazione delle vicende di una famiglia ebraica, normale e complicatissima.
Essere ebrei significa anche confrontarsi con le storie ed i miti della nostra tradizione, con gli interrogativi terribili che suscita la Akeidat Itzak. La storia di come Dio mette alla prova.
Il nostro passato, antico o recente, è pieno di prove: ma ci sono prove anche nel nostro presente: è difficile essere minoranza. È complicato trasmettere tutto questo alle prossime generazioni, in maniera interessante o finanche divertente. E poi c’è il rischio costante di incontrare un imbecille o un antisemita; io non ho mai incontrato un antisemita intelligente e tendo a considerare i due termini come sinonimi.
Leiner Izbicer, un maestro chassidico, spiega che il testo dice che sì, Dio mise alla prova Abramo, ma Abramo non passò la prova. Abramo era impegnato in una lotta contro le pratiche degli idolatri, che sappiamo avevano il costume di sacrificare la prole alle loro divinità. E Abramo riceve da Dio l’ordine di fare esattamente lo stesso.
La prova di cui parla il testo all’inizio consisteva in questo, nel ricevere questo comando: Dio voleva da Abramo una risposta negativa, voleva l’opposto della cieca obbedienza e sottomissione, voleva che Abramo gli ricordasse che il Signore non uccide gli innocenti, come pure aveva già fatto per difendere gli abitanti di Sodoma – dove pur’anche c’erano pochi innocenti.
Questa è la prova, secondo lo Izbicer, e Abramo fallisce. Non sa ribellarsi ad un comando ingiusto, avrebbe dovuto discutere, rifiutarsi di eseguire, ricordare all’Onnipotente e ricordare a sé stesso che Dio non può chiederci di uccidere. Invece Abramo dice di sì, senza pensarci troppo e si appresta ad eseguire gli ordini, fino al punto in cui per interromperlo deve intervenire un angelo.
Questo è il centro della Akeidah. Dice Dio ad Abramo: יָדַעְתִּי כִּי-יְרֵא אֱלֹהִים ho visto che temi Dio, che guardi Dio, אַל-תִּשְׁלַח יָדְךָ, trattieni la tua mano, non uccidere. Questa è la storia che è stata letta, cantata, recitata, dalle generazioni dei nostri antenati, accanto all’augurio Zokhrenu lehayyim, possiamo noi essere iscritti nel Libro della Vita.
Per insegnare ai più giovani e a noi, che la vita umana è il principale valore. Perché noi possiamo mostrare la nostra fede attraverso il rispetto degli altri esseri umani.
Affinché insegnamo ai nostri figli che l’Onnipotente non chiede la morte dei peccatori, ma che chi ha trasgredito possa cambiare e vivere, perché ogni essere umano è immagine di Dio e distruggere una sola vita è come distruggere un mondo intero.
E che il supremo augurio, il sogno per il futuro e il nostro compito per il presente è fare che le armi diventino aratri, e che l’umanità intera segua derakhei shalom, le strade di pace, come fece per primo Abramo, il nostro comune antenato cui Dio ha proibito di uccidere.
Che questo anno venga ricordato come un anno di pace.
Possiamo essere iscritti tutti noi nel Libro della Vita.

(Congregazione Beth Shalom, Milano, Rosh ha Shana 5769)

2 commenti:

Spiccato ha detto...

Molto bello.
Shana Tova
Ale

Piero P. ha detto...

Non so se tu sia l'autore o meno, la cosa non è rilevante. Come ha già scritto spiccato è un testo davvero molto bello. Complimenti Andrea. Se non altro per la scelta... e per la capacità di trasmettere 'cose nuove' aanche ai non ebrei.